La figura di una persona al di sopra delle parti che decide sulla vita altrui, giudicando il vero dal falso, il peccatore dall'asceta, l'assassino dall'innocente, c'è sempre stata. Le sacre scritture (non solo quelle cristiane) sono piene di riferimenti così quanto le cronache dell'impero degli antichi romani. Nel Medioevo era il re o i principi (o i loro delegati) ad amministrare la giustizia in base a norme molto spesso personali o ideate su misura della persona da punire, le garanzie del giureconsulto Giustiniano e degli altri latini non furono recepite neppure dalla Chiesa.
Spesso la vita o la morte di una persona è dipesa - ha detto lo scrittore del '900 Pitigrilli - dallo stato d'umore del giudicante.
Sino alla Rivoluzione Francese ma anche dopo le sentenze non erano altro che un modo legale (in quanto basate sul parere di un giusto) per sancire il diritto del più alto nella scala sociale ad appropriarsi dei beni o delle donne dell'inferiore, ad obbligare l'ammontare o il versamento dei tributi, e così via. La Giustizia, sino al secolo scorso, si appellava come "Ministero di Grazia e Giustizia" e quel "Grazia" dice tutto: il condannato anche se colpevole se si sottoponeva ai voleri del potente veniva graziato della vita o del carcere al pari dell'inocente spesso, invece, punito in quanto innocente ma con la testa alta. Basta guardare le cronache quotidiane per riscontrare numerosi casi del genere.
In fondo il giudicante, al giorno d'oggi, chi è? Un soggetto, per esempio, che ha studiato le leggi e vinto un concorso che lo ha assegnato 400 km lontano da casa; basta questo per dire che sia il più intelligente, obiettivo o calmo? Potremmo ipotizzare che non veda l'ora di fare carriera e ripercorrere i chilometri che lo distanziano da casa o da una sede magistrale migliore?
Come raggiungere lo scopo ? Con due o tre processi di portata mediatica nazionale che sanciscano la sua acutezza nell'aver subito individuato il colpevole (magari con l'aiuto degli investigatori che hanno omesso o lasciato qualche indizio su cui imbastire la colpevolezza). A pensar male si fa peccato, è una frase attribuita a Giulio Andreotti, ma spesso s'indovina.