Diciamolo subito: i due mali della politica italiana sono il finanziamento pubblico e le preferenze. Sembrerebbe un controsenso ma quello che negli altri paesi di consolidata democrazia è alla base della legittimità popolare da noi ha generato il cancro della politica. Forse, altrove, la politica è più matura o le istituzioni hanno saputo generare sistemi di efficaci controlli.
Non passa giorno che parlamentari o consiglieri regionali occupino le pagine dei giornali per aver attinto a piene mani dalle casse pubbliche il denaro sufficiente per pagare i propri vizietti; non importa se le somme siano state prelevate dal gruppo parlamentare o dal bilancio stanziato dalla regione. Rimanendo nell'ambito degli ultimi mesi possiamo citare la laurea in Albania del figlio di Umberto Bossi, la decimazione della giunta lombarda di Roberto Formigoni da parte degli inquirenti, l'allegra gestione del cassiere del partito di Francesco Rutelli, i casi dell'Emilia-Romagna e, non ultimo, lo scandalo degli uomini del PdL nella regione Lazio. Inutile rifare la storia e specificare i casi in quanto tutti poggiano sullo stesso teorema: presunti diritti di amministrare il denaro pubblico a seconda della propria utilità e di quella degli amici.
Se non ci fosse il finanziamento pubblico i movimenti politici dovrebbero attingere alle sovvenzioni dei privati che esigerebbero un tornaconto oppure le elezioni le vincerebbe solo il partito dei ricchi, consolidando così la classe egemone degli industriali e dei banchieri. Ma se il finanziamento alle formazioni politiche, così come alle associazioni onlus, fosse certificato dalla Corte dei Conti (e non da commercialisti) e reso permanentemente pubblico su giornali, tv e reti ogni cittadino potrebbe controllare le fonti di provenienza. Si potrebbe verificare il caso, per esempio, che il partito di Pier Ferdinando Casini (già fortunato per avere un suocero proprietario di molti quotidiani) potesse disporre di ingenti elargizioni mentre quello di Nichi Vendola ne sarebbe privo: basterebbe fissare un tetto alle sovvenzioni stabilendo che ogni eccedenza (da parte di qualsiasi formazione politica) fosse proporzionalmente ripartita fra tutti i partiti rappresentati in Parlamento. Inserendo, ovviamente, come avevamo già suggerito in passato, la possibilità ai partiti rappresentati in Parlamento di partecipare al dividendo dell'otto per mille, accanto alle religioni accreditate e allo Stato. Più democrazia di così!
L'altra cancrena sono le preferenze. Da un lato camorristi e mafiosi possono condizionare popolazioni in stato di soggezione, dall'altro personaggi con pochi scrupoli promettere posti di lavoro o altri favori più o meno leciti. Però democrazia vuole che chi prende più voti di preferenza sia legittimamente eletto, anche se poi si rivelerà un lestofante; e in quest'ultima legislatura in Parlamento ne abbiamo avuti tanti!
La responsabilità della scelta dei candidati va sempre imputata al partito che, invece di salvaguardare la classe dirigente, gli amici e i parenti attraverso un listone bloccato di nomi, dovrebbe nel collegio elettorale, così come al Senato, presentare un solo candidato vagliato e garantito dal partito. Spetterà poi agli elettori scegliere, tra la rosa dei nomi proposti dai partiti, quello sul quale riversare la fiducia (vedasi il post "Come finanziare la politica" del 24 aprile). Per evitare, ad esempio, che a Scampia (zona di Napoli in mano alla camorra) i voti convergano sul candidato gradito alla malavita (anche se prioritariamente vagliato dal partito) basterebbe accorpare più collegi elettorali mantenendo integro il numero degli eletti entro un frattale (porzione di territorio) più vasto, concidente con l'ambito regionale.
Se non ci fosse il finanziamento pubblico i movimenti politici dovrebbero attingere alle sovvenzioni dei privati che esigerebbero un tornaconto oppure le elezioni le vincerebbe solo il partito dei ricchi, consolidando così la classe egemone degli industriali e dei banchieri. Ma se il finanziamento alle formazioni politiche, così come alle associazioni onlus, fosse certificato dalla Corte dei Conti (e non da commercialisti) e reso permanentemente pubblico su giornali, tv e reti ogni cittadino potrebbe controllare le fonti di provenienza. Si potrebbe verificare il caso, per esempio, che il partito di Pier Ferdinando Casini (già fortunato per avere un suocero proprietario di molti quotidiani) potesse disporre di ingenti elargizioni mentre quello di Nichi Vendola ne sarebbe privo: basterebbe fissare un tetto alle sovvenzioni stabilendo che ogni eccedenza (da parte di qualsiasi formazione politica) fosse proporzionalmente ripartita fra tutti i partiti rappresentati in Parlamento. Inserendo, ovviamente, come avevamo già suggerito in passato, la possibilità ai partiti rappresentati in Parlamento di partecipare al dividendo dell'otto per mille, accanto alle religioni accreditate e allo Stato. Più democrazia di così!
L'altra cancrena sono le preferenze. Da un lato camorristi e mafiosi possono condizionare popolazioni in stato di soggezione, dall'altro personaggi con pochi scrupoli promettere posti di lavoro o altri favori più o meno leciti. Però democrazia vuole che chi prende più voti di preferenza sia legittimamente eletto, anche se poi si rivelerà un lestofante; e in quest'ultima legislatura in Parlamento ne abbiamo avuti tanti!
La responsabilità della scelta dei candidati va sempre imputata al partito che, invece di salvaguardare la classe dirigente, gli amici e i parenti attraverso un listone bloccato di nomi, dovrebbe nel collegio elettorale, così come al Senato, presentare un solo candidato vagliato e garantito dal partito. Spetterà poi agli elettori scegliere, tra la rosa dei nomi proposti dai partiti, quello sul quale riversare la fiducia (vedasi il post "Come finanziare la politica" del 24 aprile). Per evitare, ad esempio, che a Scampia (zona di Napoli in mano alla camorra) i voti convergano sul candidato gradito alla malavita (anche se prioritariamente vagliato dal partito) basterebbe accorpare più collegi elettorali mantenendo integro il numero degli eletti entro un frattale (porzione di territorio) più vasto, concidente con l'ambito regionale.