Il primo a pronunciare la frase "(io) non ci sto (al massacro)" fu il cattolicissimo presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro quando sbottò in seguito ai ripetuti attacchi di certa stampa e fazioni politiche che lo accusavano di essere (o essere stato al tempo in cui fu ministro degli interni) sul libro paga dei servizi segreti. Le somme incassate gli erano dovute, non sappiamo se per servizi resi o per la funzione ricoperta.
Dopo di lui molti altri politici ripeterono la frase per diversi motivi. L'ultimo è il leader della destra Silvio Berlusconi quando respinge al mittente (certi giudici e certa stampa) la sentenza in ultimo grado che mira a toglierlo dalla scena politica attraverso l'interdizione ai pubblici uffici e l'eventuale costrizione ai domiciliari. Come, un imprenditore come lui che dà lavoro a migliaia e migliaia di dipendenti contribuendo al pil dell'Italia, un insigne benefattore di studentesse o ragazze momentaneamente disoccupate, il politico che ha ridato vita alla destra sconfiggendo più volte i comunisti, un uomo che raccoglie milioni di voti e consensi, viene accusato di reati finanziari che non ha commesso e trattato alla stregua di un pregiudicato qualsiasi? Impossibile non vedere l'accanimento politico. Neppure i suoi quaranta avvocati e commercialisti e la posizione di ex presidente del Consiglio dei ministri sono riusciti ad evitare la condanna definitiva. Viene spontaneo, a questo punto, gridare io non ci sto!
Ma neppure l'estensore di queste note ci sta o è stato al gioco (rivendicando le sue ragioni) quando perse le cause civili, però le accettò. Allora e tuttora le considerò sentenze ingiuste ma pur sempre sentenze.
La prima fu contro un parlamentare che lo tenne come segretario particolare ed esclusivo intorno alle quaranta ore di lavoro settimanali senza versare i contributi previdenziali. Dopo cinque anni il giudice sentenziò che la causa andava presentata presso il tribunale di residenza del parlamentare in quanto da lì partiva l'assegno mensile e non a Roma che era il luogo di lavoro.
La seconda causa fu contro la casa editrice e un sindacato (comproprietari di una testata giornalistica quotidiana) che non rispettando i patti (purtroppo orali, mai fidarsi di chi fa politica!) non applicarono il contratto sindacale dei giornalisti ma quello autonomo del sindacato dei lavoratori. La sentenza privilegiò l'applicazione del contratto sindacale rispetto a quello dei giornalisti per il particolare tipo di rapporto (fiduciario) esistente nel giornale quotidiano.
Posso pertanto anche io gridare "non ci sto"? Accettando però le sentenze anche se sfavorevoli? Fatte le debite proporzioni non vedo la differenza tra me e Berlusconi.
Domani la 7^ puntata del corso sulla filosofia dell'opinione pubblica.
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